Quando non

c’è #STRATEGY

i COPY
BALLANO.

Sono una strategist. E una copy. E nella mia precedente vita, anche un direttore creativo. Se vuoi sapere cosa so fare, non chiedermelo. Mettimi alla prova.

Con l’avvento dei mezzi digitali, oltre ai formati classici e conosciuti (tv, radio, stampa, affissioni, dinamica, speciale) si sono aggiunti i formati dell’Online Advertising.

Agli albori furono i banner, la prima vera forma di Display Advertising. Posizionati nell’header, nel footer, nella sidebar oppure nel mezzo della pagina web, replicavano il concetto di inserzione sulla pagina stampa.

Negli anni questo tipo di online advertising ha subito una vera e propria esplosione di formati, creatività e posizionamenti fino ad arrivare alla totale saturazione di ogni possibile spazio esistente sul web.

Con la diffusione dei Social Network e del consumo dei Video Online e i Big Data, la Display Advertising sembra riprendere vita generando nuove opportunità per i brand.

Nel 2009 nasce il Real Time Bidding, un metodo per acquistare e vendere la pubblicità online tramite un meccanismo ad asta, una sorta di borsa delle impression che i brand possono acquistare senza intermediazione delle concessionarie di pubblicità e al miglior prezzo disponibile sul mercato.

Questo nuovo sistema, negli anni ha dato origine al Programmatic Buying, ovvero una negoziazione diretta lato brand che consente di aggregare, prenotare, analizzare ed ottimizzare la pubblicazione degli annunci online, grazie ad algoritmi che analizzano il comportamento dell’utente e piattaforme dedicate alla gestione di tutto il processo.

Dal punto di vista formale invece si è appurato che il formato video genera nell’utente un coinvolgimento nettamente superiore rispetto a quello di un banner tradizionale. La fusione di video e di branded content (non stiamo quindi parlando di spot pubblicitari, ma di contenuti di intrattenimento o di informazione rilevanti per gli utenti), risulta ancora ad oggi un formato tra i più apprezzati sia dagli utenti che dai brand.

Sull’onda di questa tendenza anche Facebook ha modificato l’algoritmo del proprio newsfeed per poter mostrare sempre più video ai propri iscritti e offrire agli inserzionisti maggiori e più efficaci metodi di promozione.

La sempre crescente capacità di analisi dei dati di navigazione dell’utente, ha inoltre permesso alla Display di articolarsi su forme sempre più sofisticate:

  • Retargeting: annunci mostrati all’utente che ha compiuto un’azione specifica su un sito, su una pagina o su un contenuto.
  • Behavioural Retargeting: annunci confezionati ad hoc e mostrati solo ad utenti che hanno un comportamento di navigazione ben preciso
  • Audience Retargeting: possibilità di creare segmenti di pubblico coerenti con determinate caratteristiche socio-demografiche (profili Personas) per raggiungere utenti con caratteristiche simili o identiche al profilo di pubblico creato.

Per loro natura intrinseca i Social Network, che raccolgono continuamente informazioni personali sugli utenti, offrono alla Display una varietà di targetizzazioni difficilmente raggiungibile con altri mezzi e rende concreti e misurabili come mai era stato possibile, i risultati delle campagne di advertising non solo in termini di impression e click, ma anche in termini di:

  • Rilevanza: attinenza dei contenuti con l’interesse dell’utente
  • Engagement: interazione dell’utente con il messaggio pubblicitario
  • Reach: numero di utenti raggiunti.

 Display Advertising: le criticità.

Le nuove possibilità e l’ingordigia dei brand ansiosi di colpire la più grande fetta di pubblico possibile, ha portato lo sviluppo di formati di advertising sempre più invasivi che stanno via via penalizzando il risultato stesso degli investimenti nell’advertising online. I problemi maggiori ruotano intorno ad aspetti quali:

1. Attention & Engagement

I consumatori hanno sempre meno tempo a disposizione (frammentato tra mille device) e sono sempre più bombardati migliaia di annunci pubblicitari. Questo porta ad un deficit di attenzione e ad una sorta di immunizzazione verso gli annunci stessi. Per risparmiare tempo l’utente evita le aree delle pagine web in cui normalmente viene inserita la pubblicità (fenomeno del banner blindness).

2. CTR & Interaction

Se sono pochi gli annunci che attirano l‘attenzione, ancora meno lo sono quelli cliccati. Inoltre sul mobile il 50% dei click sugli annunci sembrano essere accidentali. In questo modo anche il tasso di interazione con gli annunci crolla vertiginosamente.

3. Viewbility

I brand vogliono una visibilità garantita per i loro annunci con posizionamenti above the fold. Tutto questo nel sistema di acquisto ad asta, provoca inevitabilmente una crescita dei CPM medi e dei costi degli investimenti.

4. Brand safety

L’acquisto pubblicitario in modalità programmatica sebbene consenta una targetizzazione impensabile fino a qualche tempo fa, accresce proporzionalmente la perdita di controllo del contesto in cui viene mostrato l’annuncio con associazioni a volte rovinose per i brand che devono sospendere la pubblicazione degli annunci.

5. Ad fraud

Circa un terzo del traffico Internet acquistato è fraudolento. Il problema dei Bot che cliccano su link in siti nascosti creati al solo scopo di generare visite, è una questione non da poco per i brand, se si considerano i costi per l’acquisto di traffico profilato. Il fenomeno è acuito dalla crescente automatizzazione nell’acquisto delle quote di impression: robot automatici comprano traffico da altri robot perché non in grado di distinguerli da un essere umano.

A complicare la situazione si va ad aggiungere il crescente utilizzo dei plugin di Ad Blocking da parte di tutti quegli utenti stanchi di pop-up e overlay invadenti. Anche browser come Safari e Chrome offrono la possibilità di bloccare tutti gli annunci che rendono pessima l’esperienza di navigazione dell’utente.

Sorge così, sempre più pressante, la necessità di superare questi problemi che sembrano essere endemici alla Display stessa. E Social Network e Mobile suggeriscono la strada da percorrere.


Online Advertising: il cambio di rotta.

Il tempo speso dagli utenti sui dispositivi mobili ormai ha nettamente superato quello su desktop.

La fruizione da mobile non è più da intendersi solo come “utilizzo in mobilità” perché il mobile rappresenta oggi sempre più il “personal computer” e viene utilizzato non solo fuori, ma anche in casa.

Questo dato e la diffusione dei Social Network, ha verticalizzato sempre più l’esperienza di fruizione da parte dell’utente che utilizza per la maggior parte del tempo uno schermo dal formato verticale in un contesto focalizzato esclusivamente sul contenuto. Foto, video, articoli sono filtrati da una sorta di supervisore sociale che seleziona e propone ciò che le nostre connessioni ritengono interessante.

La possibilità di combinare i dati socio-demografici e di comportamento (offerti dai Social Network) con le potenzialità del geo-targeting (offerte dal mobile), apre scenari inimmaginabili ai brand che possono raggiungere il proprio pubblico nel momento migliore per comunicare un determinato messaggio pubblicitario e renderlo quindi più rilevante ed efficace:

  • il giusto messaggio
  • nel giusto momento
  • alla giusta persona.

Ecco così evidenziati i tre punti cardine che supportano la successiva evoluzione dell’advertising online.

Perché i Social (in particolare Facebook), riescono ad essere così attraenti per gli investimenti pubblicitari rispetto ad altri siti? La riposta è semplice: il contesto in cui avviene la fruizione.

L’esperienza d’uso lato utente, sui social è totalmente mobile:

  • è verticale
  • è a scroll continuo
  • è content-centrica

I formati pubblicitari seguono l’esperienza utente e non ne interrompono la navigazione: è un continuum senza sosta di contenuti e pubblicità. Non comprendere come questa evoluzione del contesto impatti sui formati pubblicitari e sull’advertising in generale vuol dire lasciarsi sfuggire l’opportunità di fondere il contesto editoriale e quello pubblicitario nell’unico modo possibile: il mobile.


Native Advertising: la rivoluzione.

In questa visione rinnovata va ad inserirsi la Native Advertising che, se da un lato può essere vista come uno strumento a servizio del marketing basato sui contenuti, dall’altro è l’evoluzione naturale della Display, pensata per offrire un contenuto pubblicitario di valore che vada ad integrarsi perfettamente con il contesto della pagina.

Secondo quanto detto gli annunci nativi si distinguono perché:

  • sono simili nel design e nel posizionamento ai contenuti del sito
  • non deviano l’utente dal flusso di navigazione sul sito
  • offrono un’esperienza di brand coerente con il sito in cui sono inseriti
  • sono chiaramente identificati come sponsorizzati
  • prevedono anche delle funzionalità di tipo social

A ben vedere la Native Advertising non è poi questa gran novità nel campo della pubblicità.

Da sempre esistono i pubbliredazionali sulla carta stampata, le telepromozioni in tv e gli advertorial sui siti web perché da sempre i brand hanno preso in prestito gli spazi degli editori per sfruttarne la reputazione presso il pubblico di riferimento.

Un pioniere assoluto della Native è Google che, dopo soli due anni dalla nascita – nel 2000 – ha lanciato la propria piattaforma digitale (AdWords) in cui venivano mostrati annunci a pagamento all’interno delle pagine-risultato del motore di ricerca.

Gli annunci non solo consentivano ai brand di ottenere visibilità nel momento stesso in cui l’utente richiedeva le informazioni, ma offrivano un servizio concreto di accompagnamento nella scelta e nella selezione, senza doverne deviare l’attenzione dalle intenzioni iniziali.

Facebook nel 2011 propone le “Sponsored Story”, ovvero la possibilità per i brand di sponsorizzare delle azioni sociali specifiche (es: like alla pagina) oppure i post stessi, apparendo nel newsfeed dei fan della pagina. Nessuna interruzione e nessuno spazio riservato: anche in questo caso solo un flusso continuo di post organici e sponsorizzati.

Via via quasi tutti i Social Network hanno introdotto formati pubblicitari nativi: i Promoted Tweet per Twitter,  gli Sponsored Updates su LinkedIn, i Promoted Video su YouTube, i Promoted Pins su Pinterest, ecc.

Negli ultimi anni sono anche nati editori web, costruiti secondo logiche editoriali e modelli di business perfettamente calati nel contesto online: redazioni agili e veloci, piani editoriali basati sulla raccolta di dati (trend di ricerche, analisi dei topic più condivisi), contenuti pensati e ottimizzati per essere search e social driven, con l’obiettivo di catturare sempre più traffico da Google e Facebook (es. BuzzFeed).

Allo stesso modo si sono moltiplicate le piattaforme di Content Recommendation (es. Outbrain) che propongono un widget, inserito alla fine dell’articolo o nella sidebar dei siti partner, comprensivo di una serie di annunci composti da immagine+testo+link e introdotti da frasi tipo “ Ti potrebbe piacere anche”.


Native Advertising: perchè funziona davvero.

Sebbene ancora non esista uno storico di dati importante sul fenomeno Native, le ricerche testimoniano come gli annunci nativi riescano a coinvolgere l’utente più e meglio degli annunci Display tradizionali. In particolar modo l’engagement diventa la metrica fondamentale per misurare l’efficacia della Native e più in generale dell’advertising stessa, spostando il focus dalle impressioni all’attenzione.

Una pubblicità che interrompe le scelte di navigazione dell’utente, è una pubblicità inefficace in quanto fallisce nella sua missione principale ovvero quella di conquistare l’attenzione del consumatore.

Gli annunci nativi, fondati sulla coerenza del messaggio pubblicitario con il flusso di navigazione e non sull’invasività, vengono accolti favorevolmente dagli utenti e considerati meno intrusivi e più interessanti rispetto ai formati tradizionali della display (banner, pop-up, rich media).

Allo stato attuale, la Native Advertising rappresenta per i brand un’opportunità e una sfida allo stesso tempo. Permette una distribuzione scalabile dei contenuti brandizzati, consentendo ai brand di raggiungere un’ampiezza di audience impensabile con la sola pubblicazione di branded content sui canali di proprietà.

Ma se il contenuto è la componente peculiare della Native Advertising, i brand devono per forza di cose diventare editori impattando in maniera sostanziale con la propria organizzazione. Devono infatti strutturarsi con risorse dedicate alla creazione di contenuti e soprattutto realizzare contenuti efficaci dal punto di vista creativo.

Questo è uno dei motivi per cui ancora oggi più del 50% dei brand non si sente pronto ad affrontare questo cambio di direzione e necessita di una massiccia opera di evangelizzazione e formazione.

Fonti: “Native Advertising. La nuova pubblicità: amplificare e monetizzare i contenuti online”, di Claudio Vaccaro.

 

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